martedì 4 novembre 2008

La ragazza che sapeva troppo di Mario Bava



Turista USA (L. Roman), a Roma è coinvolta in una serie di delitti con le vittime in ordine alfabetico che fanno capo alla casa di un'enigmatica signora Laura (V. Cortese). Inaugura il filone del thriller all'italiana (giallo a enigma + paura, con l'accento messo su suspense e ammazzamenti). La formula fu ripresa da Bava in "Sei donne per l'assassino" (1964) e portata al successo da Dario Argento in "L'uccello dalle piume di cristallo" (1970). Firmata da sei – tra cui M. De Concini e il regista – la sceneggiatura è scombinata e la suspense funziona soltanto all'interno delle singole sequenze. Apprezzabile, invece, come esercizio di regia anche perché la paura e il fantastico non nascono dal buio, dall'ombra, ma dalla luce in un suggestivo bianconero. Ultimo film di cui Bava cura anche la fotografia.
(Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli, Bologna, 2006)


Bava: il poliziesco senza la polizia

È significativo che il primo approccio di Bava al poliziesco sia stato “forzato”. Nel 1957, infatti, i produttori de "I vampiri" di Riccardo Freda, di cui l’eclettico regista ligure, non ancora passato dietro la mdp, curava la fotografia, temendo che il film fosse troppo audace per il pubblico del tempo (oggi è unanimemente considerato il primo horror italiano) e cercando di smorzarne la violenza, gli affidarono il compito di girare alcune ordinarie scene d’indagine ed uno scontato "happy ending" da inserire nel montaggio finale. Forse memore dell’esperienza, Bava, che di ogni genere frequentato nell’arco della sua carriera ha sempre aborrito le convezioni, quando diresse il suo primo thriller, l’hitchcockiano "La ragazza che sapeva troppo" (1962), si premurò subito di apportarvi delle sostanziali innovazioni. Anzitutto ambientò la fosca vicenda in una solare e turistica Roma, apparentemente inconciliabile con un intrigo giallo che a tratti assume persino dei toni soprannaturali. Le indagini che la giovane americana Nora Davis compie assieme al dottor Bassi dopo aver assistito ad un efferato omicidio compiuto sulla scalinata di Trinità dei Monti, la portano dunque a fare una sorta di moderno “Grand Tour” della città capitolina (si va dal Pincio alla spiaggia di Ostia, passando per il quartiere Coppedè, che in seguito sarà più volte sfruttato anche da Dario Argento). Bava arricchì poi il tradizionale schema del “whodunit” con l’introduzione di un doppio assassino (in questo caso il prof. Torrani, che uccide per coprire i delitti della moglie folle), espediente narrativo da lui stesso ripreso in "Sei donne per l’assassino" e successivamente copiato da Argento per "L’uccello dalle piume di cristallo". Infine, ma non meno importante, affidò il ruolo investigativo ai protagonisti invece che alla polizia. Sempre più disinteressato alla struttura narrativa e alla verosimiglianza dell’intreccio, nei suoi film seguenti Bava ridusse ulteriormente l’importanza delle forze dell’ordine. In "Sei donne per l’assassino", macabro giallo in cui gli atroci delitti sono filmati con uno stile visionario e barocco, Silvestri, ispettore di polizia tanto arrogante quanto incompetente, non solo non approda ad alcuna conclusione utile, ma ritarda addirittura la soluzione del caso fornendo inconsapevolmente un alibi all’assassino. In "Operazione paura" (1966), uno stupendo horror dove il piano della realtà e quello dell’incubo si mescolano di continuo creando un’atmosfera straniante (sono da antologia sia la sequenza in cui il protagonista insegue il suo doppio attraverso una serie di stanze uguali che le varie apparizioni della bambina-fantasma, figura alla quale si ispirò Fellini per "Toby Dammit", episodio di "Tre passi nel delirio"), tra le vittime delle morti misteriose che affliggono un tetro villaggio tedesco di fine Ottocento ci sono persino il commissario di polizia e il borgomastro. In "Diabolik" (1967), trasposizione in chiave pop del celebre fumetto delle sorelle Giussani, il nero eroe mascherato non si accontenta soltanto di mettere a segno i propri colpi e di sventare le trappole dell’ispettore Ginko, ma trova anche il tempo di beffarsi goliardicamente dell’ordine costituito sabotando una conferenza stampa del Ministro dell’Interno con del gas esilarante. Eccezione alla regola è costituita da "Il rosso segno della follia" (1969), in cui è proprio un’agente sotto copertura, Helen Wood, che pone fine agli omicidi dello psicopatico impotente John Harrington (ma si tratta più che altro di un espediente retorico, dato che la rivelazione della vera identità della donna rientra nel colpo di scena finale e che per tutto il resto del film la polizia brancola nel buio). Anche in "Cani arrabbiati" ("Semaforo rosso"), infine, Bava lavorò contro le più elementari regole del genere poliziesco: nel film (la cui durata corrisponde, pressappoco, alla durata della storia narrata), a parte lo scontro a fuoco e l’inseguimento iniziali, i rappresentanti della legge non compaiono nemmeno e lo spettatore, grazie ai continui primi piani e all’attenzione per i dettagli, si trova a stretto contatto con i protagonisti, un contatto sempre più spiacevole e claustrofobico, visto che “avviene” nell’angusto spazio di un’automobile rubata e condotta da delinquenti disposti a tutto, lontano dalla polizia... (Il Corbaccio)

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