sabato 24 maggio 2008

Vademecum orrorifico per mamme indaffarate






Pred(ic)atori fasulli, tetri preti, parroci maniaci, tate tarate, "Bloody Mary Poppins" e alberi inferi: orchi e lupi cattivi pullul(ul)ano sul grande schermo. Filmografia "essenziale" ad uso e consumo delle mamme che non trovano il tempo di leggere i fratelli Grimm ai propri frugoletti.


M, il mostro di Düsseldorf (1931)

In città regna il terrore: un mostro violenta e uccide delle bambine. La malavita organizzata, danneggiata negli affari dalle continue retate della polizia, organizza una caccia all'uomo insieme ai mendicanti. L'assassino, individuato grazie ad un motivetto che è solito fischiare (tratto dal "Peer Gynt" di Grieg), viene catturato, processato e condannato a morte da una giuria di criminali, ma le forze dell'ordine lo salvano dall'esecuzione. Ispirato al caso autentico di Peter Kürten, detto il "Vampiro di Düsseldorf" perché beveva il sangue delle proprie vittime, "M" è il primo film sonoro girato da Fritz Lang, che si serve in modo moderno della nuova tecnica, e probabilmente è il primo film nella storia del cinema ad occuparsi esplicitamente di una devianza sessuale. Costituisce anche l'esordio per il "gigantesco" Peter Lorre, adattissimo a rappresentare l'ambigua e terrificante "normalità" dell'infanticida. A metà strada tra il giallo e il dramma sociale (c'è chi lo considera specchio del tracollo morale della Germania), il film, che si sofferma ampiamente sul tema dell'opposizione tra giustizia ufficiale e giustizia privata, fece scalpore perché la criminalità vi appare più efficiente e rassicurante della polizia.

La morte corre sul fiume (1955)

Harry Powell (Robert Mitchum), falso pastore protestante, sposa e uccide la vedova Harper (Shelley Winters) per impadronirsi del bottino di una rapina fatta dal marito. Ma John e Pearl, i due figlioletti della vedova, unici a sapere dov'è nascosto il denaro, riescono a sfuggire al "Reverendo" allontanandosi sul fiume, e trovano rifugio presso Rachel, una vecchietta che ospita trovatelli. Il predicatore come orco, i due fratelli come Hänsel e Gretel, l'anziana salvatrice come fata buona, gli animaletti che assistono alla fuga dei bimbi: "La morte corre sul fiume" è un'eccezionale fiaba nera che ha il suo punto di forza non tanto in uno stringente meccanismo narrativo, quanto nell'atmosfera d'angoscia e di minaccia che incombe sulle giovani vittime. Atmosfera il cui merito spetta in egual misura all'originalissimo stile registico di Charles Laughton - influenzato sia dall'espressionismo tedesco (l'ombra di Powell che "divora" il bambino) che dal simbolismo (i capelli della donna annegata che fluttuano come alghe) -, alla grande prova d'attore di Mitchum (il suo memorabile "villain", che porta le parole "Love" e "Hate" tatuate sulle mani, verrà citato da generazioni di cineasti), e alla splendida fotografia di Stanley Cortez. Eppure il film, così anomalo e difficilmente classificabile, fu un fiasco commerciale e rimase dunque l'unica regia di Laughton. Ci vollero anni prima che assurgesse all'attuale stato di cult-movie.

Nanny la governante (1965)

Dopo aver trascorso due anni in un istituto psichiatrico per il trauma subìto alla misteriosa morte della sorellina, il piccolo Joey Fane torna a casa e dimostra un'inspiegabile ostilità nei confronti dell'anziana governante (Bette Davis), amata invece dal resto della famiglia. Il comportamento del bambino desta serie preoccupazioni, e quando sua madre e sua zia rischiano di morire avvelenate, i sospetti ricadono immediatamente su di lui. Ma Joey sa chi è il vero responsabile ed è convinto che la vecchia "nanny" non solo abbia ucciso sua sorella, ma che ora voglia anche sbarazzarsi di lui. Diretto con mano sicura da Seth Holt, questo thriller psicologico si avvale dell'ineccepibile sceneggiatura di Jimmy Sangster, incentrata sull'estenuante gara di nervi tra la governante ed il bambino, del senso di claustrofobia che emana dagli ambienti, e soprattutto della magistrale performance della Davis, che ancora una volta - dopo lo strepitoso successo di "Baby Jane" - offre un notevole ritratto di una donna affetta da tare psichiche. Il film, poi, sviluppa in modo efficace un tema per eccellenza hitchcockiano, quello dell'innocente ritenuto colpevole: l'idea di essere ingiustamente accusati è già abbastanza spaventosa per un adulto, figurarsi per un bimbo di dieci anni che ne ha trascorsi due in una clinica!

Non si sevizia un paperino (1972)

Accendura, aspro paese dell'Italia meridionale, è sconvolto dalle barbare uccisioni di alcuni bambini. Il sospettato numero uno è lo scemo del villaggio, che però viene scagionato non appena si verifica un altro delitto. Le forze dell'ordine brancolano nel buio e la rabbia della comunità, fomentata dalla superstizione, si sfoga contro la "Maciara" (Florinda Bolkan), un'eremita alienata dedita a pratiche di magia. La mentecatta viene lapidata dai genitori delle vittime, ma un ennesimo omicidio dimostra la sua innocenza. Saranno il giornalista milanese Andrea Martelli (Tomas Milian) ed un'affascinante ragazza originaria del posto (Barbara Bouchet) a scoprire la vera e sconvolgente identità dell'assassino. L'ottimo cast (oltre alla Bolkan e a Milian, anche Irene Papas e Marc Porel), l'avvincente e ben congegnata sceneggiatura, l'attenta caratterizzazione psicologica dei personaggi, la scelta inconsueta ed azzeccata dell'ambientazione (efferati omicidi compiuti alla luce del sole), e le numerose, felici notazioni di carattere antropologico e sociologico, fanno di "Non si sevizia un paperino" un capolavoro assoluto del giallo italiano. Lucio Fulci, a differenza di quanto farà in seguito, non indulge neppure al grandguignol (eccezion fatta per la brutale uccisione della "Maciara" sulle struggenti note di "Quei giorni insieme a te" della Vanoni, e per la morte di Don Alberto). Il film passò seri guai con la censura (fu sequestrato perché in una sequenza la Bouchet compariva nuda in compagnia di un bambino, ma al processo venne dimostrato che il bimbo era in realtà un nano maggiorenne), e fu duramente attaccato dai cattolici più intransigenti a causa della non tanto velata pedofilia del parroco.

L'albero del male (1990)

I giovani sposi Phil e Kate, da poco trasferitisi a Los Angeles in una villa ai margini del bosco, affidano il proprio neonato a Camilla (Jenny Seagrove), una baby-sitter dolce e competente. In realtà la donna, che si è servita di false referenze e falso nome, è una seguace di un antico culto druidico che prevede sacrifici di bambini ad un grande albero, nel quale albergano potenti spiriti maligni. Per il suo ritorno all'horror dopo "L'esorcista", William Friedkin adatta per il grande schermo un romanzo di Dan Greenburg e lo integra con tutto il repertorio più spaventoso dei fratelli Grimm, sfornando un film cupo, crudele e nero come la pece, che fa leva su paure ancestrali e superstizioni popolari (nel tristemente celebre "Malleus maleficarum" dei domenicani Institor e Sprenger si parla continuamente di "streghe ostetriche" che provocano aborti oppure offrono al diavolo i bambini che riescono a rapire). Ottima la Seagrove, credibile sia come tata premurosa che come terribile megera, anche se qui la vera protagonista è la Natura, non Madre, bensì Matrigna tetra e malvagia. Com'è nelle sue corde, Friedkin fa un uso essenziale degli effetti speciali (davvero efficaci quelli del finale, in cui il padre di famiglia, armato di una motosega, ingaggia una lotta all'ultimo sangue con l'albero maledetto), e comunque non prima di aver portato la tensione ai limiti del parossismo. Inquietanti le soggettive del bebè ed i grandangoli dalla culla, che restituiscono perfettamente il senso di straniamento dell'infante di fronte al mondo degli adulti.

Cittadino X (1995) e Evilenko, il comunista che mangiava i bambini (2003)

Ben due i film che raccontano le folli gesta del feroce serial-killer russo Andrei Chikatilo, meglio noto come il "Cannibale di Rostov", che negli anni '80 uccise più di 50 tra bambini e adolescenti. Il primo, diretto da Chris Gerolmo ed interpretato da Donald Sutherland e Stephen Rea, intreccia la classica struttura della "caccia al mostro" con l'interessante descrizione dei meccanismi della rigida burocrazia sovietica e degli ostacoli che essa frappose alle indagini. Il secondo, che l'esordiente David Grieco ha tratto da un proprio romanzo, si interroga invece sulle possibili origini della psicopatologia del pluriomicida, affidandosi in larga parte alla bravura di Malcom McDowell. Chikatilo, che visse gran parte della sua vita come un insospettabile marito ed insegnante, di solito adescava le sue giovanissime "prede" sui treni o nelle stazioni ferroviarie, poi le seviziava, ne mutilava il cadavere e se ne cibava. Fu giustiziato con una revolverata alla nuca nel '94. (Il Corbaccio)

P.S. Indovinello: chi è la guest-star del patchwork fotografico?

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