martedì 27 novembre 2007

In DVD il nuovo film di Tarantino, Grindhouse - Death Proof, “tanto polverone per nulla”. NEMMENO “SAN QUINTINO DEI B-MOVIES” È A PROVA DI NOIA


Più che tarantiniano, Grindhouse A prova di morte, è un film “tarantolato”: convulso, frenetico e senza costrutto, gira a vuoto su se stesso come uno degli spettacolari ma vacui testacoda della Dodge Charger di Stuntman Mike (Kurt Russell), lo psicopatico assassino protagonista della pellicola. D’accordo, la fotografia è impeccabile, le otto ragazze cui dà la caccia il misogino “serial-car-killer” sono tutte – o quasi – dei succulenti “bocconcini” (vedi, soprattutto, la figlia d’arte Sydney Tamiia Poitier e Rose McGowan), Kurt Russell si cala con disinvoltura nei panni ammaccati e sfregiati dell’attempato stuntman. Il film vanta, inoltre, alcuni dei più avvincenti inseguimenti automobilistici mai visti al cinema. Eppure, alla fine dei conti, si ha la deludente sensazione di aver assistito ad un onanistico esercizio di stile. E non ci riferiamo, naturalmente, alla totale assenza di trama, ché questo non costituirebbe nemmeno un difetto (comunque, la storia è presto detta: diviso in due parti speculari, A prova di morte narra gli incontri-scontri che due gruppi di “girls” fanno, in tempi successivi e con esiti opposti, con la sadica controfigura Mike, che si trastulla a pedinare e coinvolgere in catastrofici incidenti giovani bellezze sfaccendate e preferibilmente disinibite). Non sono nemmeno la sterile autoreferenzialità e l’immancabile, oltranzistico citazionismo cinefilo ad irritare, anche se francamente ci chiediamo quanti tra i fan ventenni di "Quentin-King-Of-Pulp" colgano gli omaggi alla Nouvelle Vague e a Brigitte Bardot, a Sam Peckinpah e Russ Meyer, riconoscano tra le note della colonna sonora quelle di Bernard Herrmann o dei nostri Donaggio e Morricone, o si accorgano delle continue strizzate d’occhio (e che strizzate!) ai poliziotteschi italiani anni ’70 (quelli di Di Leo, Lenzi e Castellari in testa). O, addirittura, individuino l’insolitamente lungo e narcisistico cameo del regista stesso (rassegnati, Quentin, i tuoi tratti fisionomici non hanno ancora la popolarità e la forza iconografica di quelli di un Hitchcock!). No – dicevamo – ciò che urta davvero sono gli elefantiaci, ipertrofici ed estenuanti dialoghi, quegli stessi dialoghi che in passato hanno decretato gran parte del successo del cineasta (ricordate l’esegesi di Like a Virgin di Madonna ne Le jene o la logorrea del sicario filosofeggiante di Pulp Fiction?). Bene, qui, gli interminabili scambi di battute, oltre ad essere improntati al consueto “sex, drugs and rock ‘n’ roll”, sono anche sciattamente e stancamente ripresi, per lo più con la macchina da presa fissa e piazzata frontalmente su chi parla. Le “donne-prede” cianciano e chiocciano, beate e scurrili, senza posa (dubitiamo, tuttavia, che la prosa tarantiniana si attagli al reale gergo delle burine texane). Discettano di stupefacenti, armi, bolidi a quattro ruote, cazzi, serie TV, e stratagemmi per impalmare uomini facoltosi: una nausea, tanto che, quasi quasi, si smania per la successiva apparizione di Stuntman Mike. Alla faccia di una “vendetta in rosa” o del post-femminismo timidamente enunciato dal regista! Intanto, però, gli irriducibili fan di Quentin esultano per la sua netta sterzata verso il “delirio narrativo”, il sesso ed il feticismo (in special modo quello per i piedi). Finalmente il film con la F maiuscola! Estremo, radicale, “senza protezioni” o, per restare in tema, senza cintura di sicurezza. Ma quando mai? Prendiamo, ad esempio, la morbosa passione per i piedi femminili: già era opinabile la scelta di decantare, sia in Pulp Fiction che in Kill Bill, la “bellezza” di quelle due tavole da surf che Uma Thurman si ritrova al posto delle estremità in questione (parliamo con cognizione di causa, avendole potute osservare di persona da un metro di distanza). Ancor più discutibile il fatto che possa eccitare in alcun modo osservare il povero Kurt Russell “costretto” a leccare i piedi asimmetrici, disarmonici e verosimilmente sozzi di una dormiente sciacquetta stravaccata sul sedile posteriore di un’auto. Quanto all’erotismo, poi, la scena che dovrebbe risultare più sexy, quella della lap-dance di Vanessa Ferlito, è “arrapante” quanto un giro di valzer di due settantenni in una balera romagnola. Un’altra parola va spesa sugli sperticati elogi che certi critici nostrani tributano a Tarantino per la presunta cura maniacale e filologicamente corretta con cui ha saputo ricostruire certi “sapori e atmosfere” dei cosiddetti film di serie B, mediante salti nella pellicola, immagini graffiate e sfuocate, e asincronismo (grazie al cielo, Tarantino non è Ghezzi, ma per sua sfortuna non è nemmeno Pudovkin…). Ma come? Qui si cade nel grottesco! Non sono forse loro quegli stessi individui che s’inalberano e gridano allo scandalo se per il riversamento su DVD di una pellicola “imprescindibile” come La soldatessa alle grandi manovre non viene utilizzato un master ineccepibile? O se nell’edizione digitale de La signora gioca bene a scopa? manca un solo fotogramma delle poppe di Edwige Fenech (con tutto il rispetto per le venerabili mammelle dell’attrice)? Sarà inutile, allora, ricordare che negli anni ’60 e ’70, quando saltava un rullo o le immagini prendevano a traballare, la platea indirizzava immantinente urla e fischi alla volta del proiezionista. Ma tant’è, al cospetto del “Cine-maniaco” per eccellenza non si può che genuflettersi. Al riguardo, citeremo una scena patetica cui assistemmo, basiti ed increduli, in un’imprecisata sera del 2004 alla Mostra del Cinema di Venezia, quando Quentin era il padrino della rassegna Italian Kings of the B’s. Ebbene, con largo anticipo sull’inizio del film in programma (quasi un quarto d’ora), una dolce ragazzina imbarazzata e trepidante, raccolte tutte le sue forze, si avvicinò al regista americano per chiedergli un autografo. Probabilmente in vena di cazzeggio, o più verosimilmente deciso ad improvvisare un dialogo “cool” in stile Samuel L. Jackson, il Nostro la liquidò così: “Ehi! Tu sei religiosa? Voglio dire, vai in Chiesa? Beh, allora, se vai in Chiesa, sai che non si disturba una persona mentre prega. Bene, per me il cinema è esattamente come una chiesa, il mio personale luogo di culto. Quindi, in questo momento, per te io sono un fedele che recita le sue orazioni”. E bravo il novello “reverendo Quintino da Knoxville, Tennessee”! Decisamente più “para” che “cool”, deve aver smarrito la proverbiale ironia con cui era solito stemperare le esplosioni di violenza e gli spargimenti di sangue dei suoi film più celebri. Difatti, anche A prova di morte risulta un’operina molto più sgangherata e traballante che divertente: sembra quasi una gallina da batteria che, bocciata dal pubblico statunitense (un flop terribile), sia stata gonfiata a dismisura con estrogeni simil-vintage per arrivare in tempo sulla passerella di Cannes prima, e in tutta Europa poi. Eh già, perché la pellicola circolata sui nostri schermi è la versione rimpolpata della seconda parte di un film a due firme, uscito negli USA col titolo di Grindhouse (termine che indicava quei cinema di quarta visione nei quali si proiettavano i double-feature, due film al prezzo di uno). L’originale è composto, appunto, da A prova di morte (Death Proof ), da un lungometraggio di Robert Rodriguez (Planet Terror), e da una serie di “falsi” trailer. Estrapolato dal suo contesto originario, A prova di morte è un film pletorico, prolisso e ridondante, zeppo di rimandi oscuri e pedanti. Restano la bella colonna sonora, l’incipit al fulmicotone con una delle ragazze che corre a perdifiato con le mani strette sulla vagina per non pisciarsi addosso, e l’incisivo inseguimento finale. Anche opportunamente riveduto e corretto, comunque, A prova di morte non potrebbe costituire nient’altro che l’ottimo making of di un action-movie senza azione. Un po’ poco per quello che qualcuno ha definito il nuovo Godard. Allora, consigliamo a Tarantino di portare dal meccanico la sua Dodge Charger, che qui ha sgommato e grippato alzando tanto polverone per nulla, e di percorrere strade più fertili di quelle texane. Quentin, “arridacce” un film come Jackie Brown! (M.G.)

1 commento:

Verdier il Vampiro ha detto...

l'ho visto quel film e mi ha fatto veramente pena. Orribile.
Credeva di scimmiottare gli anni settanta invece ha scimmiottato un regista degli anni novanta che finge di girare un film con le tecniche degli anni settanta.
Tarantino, una delle persone più sopravvalutate del pianete dopo Roberto Benigni e Dario Fo.